lunedì 6 febbraio 2012

La nevicata del '12 ovvero il giorno in cui uscimmo di casa




C'era la crisi, no, ancora non quella che studiate a scuola, quella è la crisi del '18, ma la gente era già stanca, facevano i blocchi, gli scioperi, si fermava tutto. Lo sciopero era quando per lavorare meglio non si lavorava per un giorno.

No, non c'erano le sottovie, e le macchine camminavano tutte a terra ancora. Nel '12 era relativamente facile bloccare tutto, ci si muoveva a Livello Zero, bastava mettersi di traverso. E la gente iniziava a mettersi di traverso. Perchè c'era la crisi. Da mangiare ce n'era, si usciva, si andava al cinema, ai concerti, non te devi immaginà che stavamo chiusi in casa. Non eravamo tristi, però se pensavamo al futuro ci veniva un po' d'ansia. Il presente non era un problema insuperabile, il problema è che sembrava avvitato su se stesso, sto presente.


Immaginati la vita come un libro. Nessuno ci vietava di leggere, però sfogliavi una pagina e quella dopo c'aveva lo stesso numero. A forza de imparà a memoria ognuno la paginetta sua ce stavamo a scordà che potevano esistere altri capitoli.

Ce ne saremmo accorti parecchi anni dopo.

Poi quel giorno ha nevicato, quante volte l'hai sentita la nevicata del '12?

E' successo di sabato. Nel '12 non se lavorava il sabato, la Settimana Produttiva venne introdotta nel '19, dopo la crisi, l'anno che è nato papà tuo, l'hai studiati i figli della crisi no? Pure lì, tu studi le cose tanti anni dopo e c’hai tutto incasellato, ma non è che noi lo sapevamo che stavamo a fa i figli della crisi, che pore creature non è che sia manco l’etichetta più bella del mondo.

Comunque.

Di solito il sabato si passava in macchina. Ora più, ora meno. Andavamo sempre tutti in macchina dappertutto. Pure se andavamo tutti negli stessi posti, ognuno c'andava con la macchina sua. Perchè ancora non c'era la Quota Paese, pensa che non c'era manco la Quota Continente, ancora ogni nazione usava tutta la benzina che gli pareva. Ce lo dicevano che non era infinita, e noi ce credevamo eh, non è che eravamo stupidi come te sembra a te, è solo che eravamo abituati così, lo sapevamo bene che c'era il resto del mondo, ma non ci bastava per cambiare. Pensa che la Cina e l'India non erano manco capaci a giocà a pallone ancora, tanto pe capisse.

Comunque.

All'epoca, come te dicevo, se viaggiava solo a Livello Zero, quindi tutta la neve che è cascata quel sabato del '12 aveva bloccato le strade, non eravamo attrezzati come adesso. Non capitava spesso na cosa del genere, a quei tempi, pensa che erano trent'anni che non la faceva così, e allora siamo usciti tutti a vedere la neve. Ma in realtà siamo usciti a vedere le persone, perchè non le vedevamo da un sacco di tempo.

Ma pure di questo ce ne saremmo accorti parecchi anni dopo.

La gente è uscita di casa. Tutta. E faceva strano perchè tu lo sapevi che tutta quella gente ti viveva intorno, però non l'avevi mai vista tutta insieme e con gli occhi tuoi. Avevi visto folle più grandi in tanti posti, però erano sempre persone che stavano lì per uno scopo.

Ai concerti per sentire

Al cinema per vedere

Alle manifestazioni per manifestare

Al supermercato per comprare

In un sacco di altri posti per comprare

E invece quel giorno siamo usciti per uscire, ci siamo dimenticati che il tempo è prezioso, e ci siamo ricordati che il tempo perso è ancora più prezioso. E poi camminavamo, le macchine erano tutte ferme, e a camminare a piedi sei più lento, c'hai il tempo di guardare le persone in faccia, c'ha il tempo di capire se quella persona ti saluterà pure se non ti conosce, e quel giorno, sarà perchè c'era la neve, ma la gente si salutava pure se non si conosceva. C'hai presente che effetto ti fa quando vedi nonno che inizia le mail con "Caro....", ecco, a noi salutare la gente che non conoscevamo ce faceva lo stesso effetto, era una cosa che facevano i nonni nostri.


La gente si salutava e si sorrideva, senza motivo, sembravamo mezzi rincoglioniti, in realtà eravamo solo un po' meno soli. Era una pagina diversa, che si poteva leggere insieme.

“E quindi? Che è successo dopo quel giorno?”

Niente è successo, la neve s’è sciolta e s’è fatta zozza, la gente è tornata dentro casa, forse un po’ meno sola. Quel giorno è stato un puntino bianco in una striscia grigia.

Ma di questo ce ne saremmo accorti parecchi anni dopo.

E mo dormi, che nonno c'ha più sonno de te.

sabato 5 novembre 2011

[Fuori tema] Le lacrime di Genova

Genova piange, ma le sue lacrime non si vedono, annegano anche loro nel fiume marrone che la sta violentando.
In momenti come questi la rabbia monta potente, e l'indignazione rischia di annebbiare la vista e confondere le argomentazioni. Non bisogna, non si può, non si deve generalizzare. Allora è giusto dire le cose con puntualità e chiarezza.

I morti di Genova non sono vittime del maltempo.
Sono morti di abusi edilizi, sono morti di condoni che li hanno tenuti in piedi, sono morti di una corsa al cemento che non conosce crisi e confini e va a edificare fin dentro gli alvei, sono morti di manovre finanziarie e leggi di stabilità che hanno bloccatto fondi già stanziati per la messa in sicurezza di ponti e argini.


I morti di Genova non sono vittime di una tragica fatalità.
Sono morti di Ponte sullo stretto, sono morti di Tav, sono morti di G8 alla Maddalena, sono morti di priorità scellerate date a opere inutili dimenticando scientemente e sistematicamente tutti gli interventi necessari sul territorio.


I morti di Genova non sono vittime di un'emergenza.
Sono morti di una politica che non sa decidere senza guardare al termometro della popolarità, incapace di assumersi anche solo la responsabilità di chiudere una scuola, che potrebbe costargli contestazioni se poi fosse una misura inutile. Ma sono morti anche di una Protezione Civile lentamente spogliata del suo ruolo per essere trasformata in un coacervo di interessi, affari e appalti scellerati.

In Italia la morte per pioggia è una voce messa a bilancio, considerata accettabile finchè il costo è sostenibile in termini di consenso. Se così non fosse, ci si sarebbe adoperati subito dopo una delle innumerevoli tragedie per cambiare la destinazione di alcuni fondi e indirizzarli su queste opere. Ma le piccole opere hanno due difetti: sono poco spendibili in termini di immagine, e poco redditizie per gli amici degli amici. E' così che si continua a morire di pioggia, e finchè i morti sono pochi, e l'opinione pubblica narcotizzata, chi amministra è ancora in grado di restare al suo posto, di reggere la botta sul momento e di farla dimenticare, fino alla prossima "tragica fatalità".

giovedì 3 novembre 2011

Il vecchio

Metro A. Stazione Porta Furba, entra un vecchio [disclaimer antibuonismo: tra poche righe si definirà lui come tale, "anziano" per questo giro lo teniamo nel cassetto] si guarda intorno, è vorace, ha fame di polemica. Fa tre passi, si appoggia agli appositi sostegni: in 4 secondi incenerisce con lo sguardo netti tutti i seduti. Poi individua il target. "I ragazzini devono stà in piedi", dice il vecchio. Destinatari del messaggio: n°1 madre, n°2 figli piccoli. La madre si guarda intorno, cerca conferme, non ha capito se il vecchio ce l'ha con lei. I bambini capiscono ancora meno, mentre è facile capire per tutti gli altri come i piccoli siano piuttosto stanchi.


A spazzare l'ambiguità arriva prontamente l'integrazione del concetto: "Manco pe i vecchi ve alzate, poi ve lamentate che va tutto a puttane". Sono passati dieci secondi da quando è entrato, nemmeno i tempi di reazione di Usain Bolt ai blocchi di partenza avrebbero permesso di fargli notare la circostanza e offrire il posto. Ma dieci secondi sono un'eternità quando i nervi non li controlli più, e se (così, a sensazione) anche quando li controllavi non eri un campione di socialità.


La madre lo guarda, non parla. La faccia lascia trasparire un "Eh?" che ancora però non si esplicita. Per il vecchio è come ricevere l'invito a nozze da Angelina Jolie. " Eccerto, che te frega a te, tutti e tre belli comodi loro". Un uomo sulla cinquantina alla destra della madre si alza: ignorato. Un ragazzo alle sue spalle si alza e gli picchietta sul braccio per dirgli che gli ha liberato il posto: ignorato anche lui. Il vecchio continua nel suo sproloquio infilzando nello stesso spiedo sintattico pezzi bruciati di "onore", "amor proprio", "vergogna", "lavoro", sino ad arrivare alla portata principale: il "paese vostro".


Se anche si alzassero tutti i passeggeri, se anche il conducente cedesse il posto di comando, se anche il treno arrivasse ad Anagnina con solo loro quattro, se anche arrivasse una Navetta Speciale Vecchi Inopportuni, lui continuerebbe. Lo farebbe, se la signora indiana non lo stesse umiliando con un "Prego signore", alzandosi in piedi e mostrando a tutti la sua bella pancia rotonda, piena di vita e del suo prossimo nemico.


L'uomo rimane in piedi, interdetto, sepolto vivo dalle occhiate di disprezzo. Ma il ruolo che ha deciso di giocare non permette deroghe e non contempla le parole "grazie" e "scusi". E allora si accomoda e rimane lì, zitto, affondato nella sua risibile vittoria. Nessuno gli si siede accanto, un po' perchè chiunque prendesse quei posti si sentirebbe di averli estorti alla madre e ai due figli, un po' per paura che quella nuvola cattiva, gonfia di ignoranza, possa in qualche modo scrollargli addosso una pioggia contagiosa.

Lo sferragliare di binari interroga il silenzio che ha avvolto la tragedia di essere l'uomo ridicolo che è quello che mi siede di fronte, ma nessuno di noi ha risposte, nessuno saprà quando e perchè questo vecchio ha scelto di essere quello che è.



B.i.t Generation su Facebook

giovedì 6 ottobre 2011

Il Mago

“Ma internet sta lì dentro?”
“No, internet sta fuori, questo serve a leggerlo”

Non so se il vecchio che mi ha posto questa domanda sul 40 direzione Termini abbia dei nipoti, se così fosse non avrebbero fatto un buon lavoro finora. Perchè quando gli ho dato questa risposta per niente strutturata, ho visto gli occhi di chi capisce qualcosa dopo un po’ che ci sta provando.
Gli stessi occhi che da un quarto d’ora mi sentivo incollati sullo schermo dell’i Pad, ma che per stanchezza e giornata no, stavo fingendo di ignorare, come a dire: “Ok, t’ho visto, ti piace il giocattolino, però se vuoi parlà cominci tu.” E lui ha cominciato, fino ad arrivare alla domanda di cui sopra. Il punto è che una volta immagazzinato il concetto che Internet non è una cosa fisica ma una cosa “che si trasmette” “tipo la tv”, poi ci ha preso gusto, e gira che ti rigira siamo finiti lì dove vogliono finire i circa tre interlocutori a settimana che mi constringono a togliere le cuffie: “Ma funziona?”

La domanda non è solo malposta, è stronza. Perchè è talmente evidente che il dispositivo che tengo saldamente nelle mie mani stia funzionando, da constringere me, che di parlare non avevo nessuna voglia, a foraggiare la conversazione chiedendo chiarimenti sul quesito. "In che senso funziona?"
“No dico, sembra una cosa magica, cioè tu tocchi e...”

Ecco, tana per il vecchio. Saranno passati quanti, 70, 80 anni da quando eri un bambino ma anche tu, come tanti tuoi simili, vuoi fare quello che da tutti questi anni sai che non si può fare. Che diceva mamma? Guardare e non toccare. E allora perchè deve essere proprio il mio iPad il campo ove combattere edipiche guerre postume alla tua formatrice e genitrice?
Perchè sì, sembra rispondermi con gli occhi scremati dalle cataratte da operare. Va bene, dai.
“No guardi, non è magico, è come i computer normali, però invece della tastiera si fa tutto sullo schermo, provi a passare il dito”. Un dito rinsecchito e scheggiato e calloso e rugoso tiene in ostaggio un gruppo di icone, il mio gruppo di icone, indeciso se voltare pagina o se tenerle così, nel limbo del touch. Poi le molla, spinge su una a caso, fa partire la radio.
Il vecchio si stacca dallo schermo, mi guarda contento.
“Ma dove siamo arrivati, è una cosa bellissima”.

E tu capisci, Steve, che se un vecchio dice sorridendo la frase che di solito accompagna ad uno sguardo severo, se un uomo di un altra generazione davanti alla tecnologia non si spaventa ma torna bambino, allora te ne puoi andare tranquillo. I tuoi inventeranno altri gingillini per i quali spenderemo troppi soldi e per costruire i quali verranno sfruttate troppe persone, e di questo anche tu, se qualcuno lassù c’è, renderai conto.
Ma la tua idea, il tuo sogno, la tua visione, quella ha vinto. Perchè io faccio il figo razionale a dire al signore che “no, non è magia”, ma poi non lo voglio sapere come si organizzano i polimeri e gli elettroni dentro la mia tavoletta, perchè lì dentro la magia c’è.
Perchè, per come sono fatto io, tutto ciò che rende più facile ad un uomo comunicare con i propri simili, aiuta a generare quella magia che non sta nell’oggetto in se, ma nelle cose che non potremmo dirci senza la sua esistenza.
Ecco tu, Steve, a questo tipo di magia hai dedicato la tua vita. Per quali motivi, ormai, non è più importante, ma c'era ancora bisogno di un tipo come te. Ciao mago secco, buon viaggio.

giovedì 15 settembre 2011

Us and Them

Ieri, mercoledì 14 settembre, come accade circa una volta a settimana, l’Apocalisse si è manifestata su questa terra. Non ve ne siete accorti, lo so. Perchè in realtà si è manifestata sotto questa terra, e per la precisione su una banchina. Io, personalmene, l’ho incontrata presso la stazione metro di Barberini e, nonostante la pausa estiva, devo dire di averla trovata piuttosto in forma. Apo è fatta così, per un po’ sparisce, ti preoccupi, la chiami e ce l’ha staccato, ma poi torna sempre, con tutto il suo corollario di tragedia e disperazione.

Ieri, mercoledì 14 settembre, alle 18 circa, il tempo si è fermato, e l’uomo ha sconfitto il tabù della violazione dello spazio-tempo senza neanche avere bisogno di una DeLorean. E’ bastato che per un quarto d’ora non passassero convogli, in quei quindici minuti di sospensione della realtà, Apo si è palesata tra di noi, con l’intenzione di trattenersi per un po’, una visita di cortesia, niente di più, quell’oretta necessaria a generare scene più consone al Terzo Reich che alla metro di Roma.

In queste situazioni il mondo all’esterno non esiste più, e si è catapultati all’istante in un nuovo ordine di cose, una comunità nella quale le più basiche regole che sottendono ad una civile convivenza vengono schiacciate senza pietà dalla ferocia e dalla voglia di tornare a casa.
All’improvviso il macrosistema si divide in due: noi e loro. “Noi” sono dentro il vagone, schiacciati come sardine, cruentemente determinati a resistere ad ogni tentativo di ulteriore ingresso. “Loro” sono fuori, ugualmente schiacciati, voracemente affamati di una qualche forma di vuoto nel vagone da andare a colmare tramite adesione totale del proprio corpo con quello di uno sconosciuto. Non di rado si sfocia nella pornografia involontaria.

Ciò che preme sottolineare è l’assoluta volatilità delle composizione delle due tribù. Quando sei un “Loro” e spingi per entrare, i “Noi” si coalizzano con commovente coesione sociale contro di te, ricoprendoti di una vastissima gamma di epiteti che hanno come basa d’asta un cordiale: “A pezzo de merda”. Tu, insensibile ad ogni suono e ai colpi sotto la cintura, acquisito istantaneamente per meriti sul campo il passaporto giapponese, spingi con tutta la forza che hai in corpo e incredibilmente, là dove la materia appariva insondabile, riesci a creare la breccia che ti permette di entrare all’istante nell’insieme “Noi”.

Il cambio di scenario è pressochè istantaneo. Gli uomini e le donne con i quali sino a pochi istanti prima condividevi un’epica battaglia divengono seduta stante dei rozzi individui deformati dalla fatica e dall’odio, orrende creature degne della penna di Tolkien da respingere in ogni modo, fortificando le barriere con borse, ombrelli ed ogni tipo di suppellettile disponibile.

Allo stesso modo, chi ti offendeva ora ti spalleggia, ti esorta alla conservazione di un precario status quo e tu, vile, orrendo giuda e traditore, ti prodighi in un “Ah signò ma non lo vede che non c’è spazio, ma ndo devo andà secondo lei? EH? CHE FACCIO? SPARISCO?” al quale seguono grida di giubilo e onoreficenze varie.

Appena chiuse le porte l'effimera solidarietà evapora in un colpo d'aria condizionata, e inizia la lotta silente per il riposizionamento in vista della prossima battaglia. Chi deve scendere si fa largo tra membra umane indistinguibili tra loro, chi ha appena combattuto tenta di guadagnare le retrovie per conquistare il posto nell'ideale infermeria rappresentata dalla porta situata sul lato opposto del vagone. E qui vogliamo ricordare con un minuto di silenzio i caduti nel baratro dell'ignoranza e dell'inesperienza, che facendosi gloriosamente largo tra esseri umani esausti si sono spinti sino all'ambito porto sicuro, senza sapere che quella era la fermata nella quale cambia il lato di apertura porte.
A voi, ignari eroi di questa lotta quotidiana, tutta la nostra compassione, tutta la nostra solidarietà. Ma solo dopo avervi fregato il posto che occupavate.


P.s. Se ti piace il blog, non vedo perchè non dovrebbe piacerti il gruppo Facebook. Ci trovi un po' di cose che qui non ci sono, vieni a dare un'occhiata: http://www.facebook.com/b.i.t.generation


martedì 6 settembre 2011

La fissa

L’uomo col completo sta leggendo “Il Giornale”.
L’uomo in maglietta sta leggendo “La Repubblica”.
Seduti uno davanti all’altro in un vagone vuoto, eccetto chi racconta. Entrambi notano immediatamente la pubbblicazione che l’altro sta sfogliando, e ne traggono le proprie deduzioni.
Di tanto in tanto, uno sguardo si arrampica oltre il bordo della pagina per andare a sbattere contro il nemico, e controlla se l’altro non stia facendo la stessa cosa. Per due o tre volte lo fanno in momenti diversi, e le saette non si scontrano.

Ora, nove volte su dieci queste situazioni si risolvono in un nulla di fatto, e al massimo i due scendono dalla metro dedicandosi reciprocamente un : “Ma come fa a leggere quella merda?”, ma senza dirlo, pensandolo e basta. Stavolta, sarà il momento un tantino delicato a livello politico, sarà che hanno litigato a casa con la moglie, sarà che il cane ha abbaiato tutta la notte, i due non sembrano intenzionati a passarci sopra.


Si respira l’aria che precede il temporale, quella che ti fa correre sul balcone per ritirare i panni e ti fa tirare giù le serrande perchè dopo sei mesi ti sei ricordato di comprare il Vetril e hai pulito le finestre.

Alla fine, smentendo il mio pronostico, rompe gli indugi l’uomo col completo. “Volevo vedè a voi!” In teoria parla con qualche leader della sinistra menzionato sulle pagine del suo giornale, la pratica è talmente ovvia che il vero destinatario non si fa pregare.
“Ma voi chi, a fa’ che?”
“Volevo vedè a voi che facevate, se stavate al governo”
“Se noi stavamo al governo non ce se arrivava a sto punto, perchè quello che state a fa’ in ritardo e male noi lo stavamo a fa’ 5 anni fa e bene”
“Ah e che avreste fatto sentiamo”
“Avremmo fatto pagà le tasse a te all’amici tuoi”
“E che non lo sapevo, c’avete la fissa delle tasse voi! Basta che fate pagà la gente, nsapete fa altro”
“Ma come la fissa! Ma che vuol dire la fissa? Se non le paghi te io ne devo pagà il doppio, la capite sta cosa?”
“Eehh, vabbè....”

Hanno continuato, senza degenerare, a volte anche stemperando con ironia, per una decina di fermate. E mentre io leggevo il mio di giornale, pensavo che tutte quelle soluzioni alla crisi che si rincorrevano sulle pagine e tutti quegli emendamenti alla manovra, non sarebbero serviti a niente, e se sapessi descrivere la faccia e il tono di quel “Eehh, vabbè...” saprei anche spiegare con le parole giuste il perchè, e saprei dare un nome al tumore che ha reso questo Paese un malato terminale.

lunedì 29 agosto 2011

L'abbraccio

Un ingorgo incomprensibile, anche per gli standard di Morena. Mi ci sono trovato poco fa, imbottigliato in un 551 a sua volta imbottigliato. Mezzora per fare un chilometro. Ovviamente sull'autobus si accende subito la disputa su cause, responsabilitá, possibili soluzioni, e quando arriviamo all'incrocio principale, tutte le opinioni convergono istantaneamente, unanimemente, sulla soluzione che si palesa attraverso i vetri sporchi: "ahhhh, ce stanno i vigili". Archiviata la causa dell'ingorgo grazie al pregiudizio (quasi sempre giustificato quando si parla si vigili e traffico, non stavolta) si passa al quesito successivo: perché questo dispiegamento di forze in una anonima mattinata di fine agosto? Liberatosi parzialmente dall'ingorgo, il bus inizia a camminare, e ci offre una prospettiva su una via Anagnina teatro di una via crucis di uomini, donne, ragazzi e ragazze vestiti bene. Un fiume di persone i cui argini sono file di macchine parcheggiate senza pudore in doppie e triple file, i vigili vedono tutto ma non hanno blocchetti in mano, non invitano a spostare, non fanno multe, tentano solo di governare l'imbuto che si è creato per l'inevitabile restrizione della carreggiata.
Sul 551 un uomo dalla stazza imponente ma piegata da un caldo che lui sembra accusare più degli altri sta per prorompere in una tirata contro i vigili, anzi contro il corpo di Polizia di Roma Capitale, come recitano le fiancate delle Punto bianche. "Ma te pare possibile che questi stanno qua e..."
Si ferma. Capisce, capiamo tutti contemporaneamente mentre l'autobus passa davanti all'ingresso di una chiesa, il cui viale è gremito di persone delle quali adesso senti le voci, vedi le facce, e quelli che senti sono lamenti, e quelle che vedi sono lacrime. Capiamo che tutte queste persone sono qui per un abbraccio. L'ultimo.
Il silenzio surreale dura una decina di secondi, l'autista lo rompe con una domanda che, anche se siamo lontani dalla palina gialla, in quel momento sembra l'unica possibile: "Qualcuno vuole scendere?"
L'autobus si svuota per due terzi, scendo anche io. A fare cosa non si sa, visto che non potrò fermarmi al funerale, che il lavoro mi attende. Come me molti altri non possono fermarsi per più di qualche minuto, ma sentono il bisogno di esserci, di stringersi attorno a un dolore incomprensibile.
Il tempo che trascorre tra il 551 che mi ha lasciato e quello che mi raccoglierà lo passo ad osservare e a pensare. Non arrivo a nessuna conclusione, e non ho nessuna perla sociologica sul dolore da scrivere. Penso solo che qui, a differenza di altri funerali di ragazzi giovani come Edoardo, non vedo rabbia. Sembra esserci tanta paura, come se su quell'asfalto davanti alla pizzeria fosse rimasto un pezzo delle certezze di un quartiere che si credeva fuori dal raggio di un male così grande.