sabato 5 novembre 2011

[Fuori tema] Le lacrime di Genova

Genova piange, ma le sue lacrime non si vedono, annegano anche loro nel fiume marrone che la sta violentando.
In momenti come questi la rabbia monta potente, e l'indignazione rischia di annebbiare la vista e confondere le argomentazioni. Non bisogna, non si può, non si deve generalizzare. Allora è giusto dire le cose con puntualità e chiarezza.

I morti di Genova non sono vittime del maltempo.
Sono morti di abusi edilizi, sono morti di condoni che li hanno tenuti in piedi, sono morti di una corsa al cemento che non conosce crisi e confini e va a edificare fin dentro gli alvei, sono morti di manovre finanziarie e leggi di stabilità che hanno bloccatto fondi già stanziati per la messa in sicurezza di ponti e argini.


I morti di Genova non sono vittime di una tragica fatalità.
Sono morti di Ponte sullo stretto, sono morti di Tav, sono morti di G8 alla Maddalena, sono morti di priorità scellerate date a opere inutili dimenticando scientemente e sistematicamente tutti gli interventi necessari sul territorio.


I morti di Genova non sono vittime di un'emergenza.
Sono morti di una politica che non sa decidere senza guardare al termometro della popolarità, incapace di assumersi anche solo la responsabilità di chiudere una scuola, che potrebbe costargli contestazioni se poi fosse una misura inutile. Ma sono morti anche di una Protezione Civile lentamente spogliata del suo ruolo per essere trasformata in un coacervo di interessi, affari e appalti scellerati.

In Italia la morte per pioggia è una voce messa a bilancio, considerata accettabile finchè il costo è sostenibile in termini di consenso. Se così non fosse, ci si sarebbe adoperati subito dopo una delle innumerevoli tragedie per cambiare la destinazione di alcuni fondi e indirizzarli su queste opere. Ma le piccole opere hanno due difetti: sono poco spendibili in termini di immagine, e poco redditizie per gli amici degli amici. E' così che si continua a morire di pioggia, e finchè i morti sono pochi, e l'opinione pubblica narcotizzata, chi amministra è ancora in grado di restare al suo posto, di reggere la botta sul momento e di farla dimenticare, fino alla prossima "tragica fatalità".

giovedì 3 novembre 2011

Il vecchio

Metro A. Stazione Porta Furba, entra un vecchio [disclaimer antibuonismo: tra poche righe si definirà lui come tale, "anziano" per questo giro lo teniamo nel cassetto] si guarda intorno, è vorace, ha fame di polemica. Fa tre passi, si appoggia agli appositi sostegni: in 4 secondi incenerisce con lo sguardo netti tutti i seduti. Poi individua il target. "I ragazzini devono stà in piedi", dice il vecchio. Destinatari del messaggio: n°1 madre, n°2 figli piccoli. La madre si guarda intorno, cerca conferme, non ha capito se il vecchio ce l'ha con lei. I bambini capiscono ancora meno, mentre è facile capire per tutti gli altri come i piccoli siano piuttosto stanchi.


A spazzare l'ambiguità arriva prontamente l'integrazione del concetto: "Manco pe i vecchi ve alzate, poi ve lamentate che va tutto a puttane". Sono passati dieci secondi da quando è entrato, nemmeno i tempi di reazione di Usain Bolt ai blocchi di partenza avrebbero permesso di fargli notare la circostanza e offrire il posto. Ma dieci secondi sono un'eternità quando i nervi non li controlli più, e se (così, a sensazione) anche quando li controllavi non eri un campione di socialità.


La madre lo guarda, non parla. La faccia lascia trasparire un "Eh?" che ancora però non si esplicita. Per il vecchio è come ricevere l'invito a nozze da Angelina Jolie. " Eccerto, che te frega a te, tutti e tre belli comodi loro". Un uomo sulla cinquantina alla destra della madre si alza: ignorato. Un ragazzo alle sue spalle si alza e gli picchietta sul braccio per dirgli che gli ha liberato il posto: ignorato anche lui. Il vecchio continua nel suo sproloquio infilzando nello stesso spiedo sintattico pezzi bruciati di "onore", "amor proprio", "vergogna", "lavoro", sino ad arrivare alla portata principale: il "paese vostro".


Se anche si alzassero tutti i passeggeri, se anche il conducente cedesse il posto di comando, se anche il treno arrivasse ad Anagnina con solo loro quattro, se anche arrivasse una Navetta Speciale Vecchi Inopportuni, lui continuerebbe. Lo farebbe, se la signora indiana non lo stesse umiliando con un "Prego signore", alzandosi in piedi e mostrando a tutti la sua bella pancia rotonda, piena di vita e del suo prossimo nemico.


L'uomo rimane in piedi, interdetto, sepolto vivo dalle occhiate di disprezzo. Ma il ruolo che ha deciso di giocare non permette deroghe e non contempla le parole "grazie" e "scusi". E allora si accomoda e rimane lì, zitto, affondato nella sua risibile vittoria. Nessuno gli si siede accanto, un po' perchè chiunque prendesse quei posti si sentirebbe di averli estorti alla madre e ai due figli, un po' per paura che quella nuvola cattiva, gonfia di ignoranza, possa in qualche modo scrollargli addosso una pioggia contagiosa.

Lo sferragliare di binari interroga il silenzio che ha avvolto la tragedia di essere l'uomo ridicolo che è quello che mi siede di fronte, ma nessuno di noi ha risposte, nessuno saprà quando e perchè questo vecchio ha scelto di essere quello che è.



B.i.t Generation su Facebook

giovedì 6 ottobre 2011

Il Mago

“Ma internet sta lì dentro?”
“No, internet sta fuori, questo serve a leggerlo”

Non so se il vecchio che mi ha posto questa domanda sul 40 direzione Termini abbia dei nipoti, se così fosse non avrebbero fatto un buon lavoro finora. Perchè quando gli ho dato questa risposta per niente strutturata, ho visto gli occhi di chi capisce qualcosa dopo un po’ che ci sta provando.
Gli stessi occhi che da un quarto d’ora mi sentivo incollati sullo schermo dell’i Pad, ma che per stanchezza e giornata no, stavo fingendo di ignorare, come a dire: “Ok, t’ho visto, ti piace il giocattolino, però se vuoi parlà cominci tu.” E lui ha cominciato, fino ad arrivare alla domanda di cui sopra. Il punto è che una volta immagazzinato il concetto che Internet non è una cosa fisica ma una cosa “che si trasmette” “tipo la tv”, poi ci ha preso gusto, e gira che ti rigira siamo finiti lì dove vogliono finire i circa tre interlocutori a settimana che mi constringono a togliere le cuffie: “Ma funziona?”

La domanda non è solo malposta, è stronza. Perchè è talmente evidente che il dispositivo che tengo saldamente nelle mie mani stia funzionando, da constringere me, che di parlare non avevo nessuna voglia, a foraggiare la conversazione chiedendo chiarimenti sul quesito. "In che senso funziona?"
“No dico, sembra una cosa magica, cioè tu tocchi e...”

Ecco, tana per il vecchio. Saranno passati quanti, 70, 80 anni da quando eri un bambino ma anche tu, come tanti tuoi simili, vuoi fare quello che da tutti questi anni sai che non si può fare. Che diceva mamma? Guardare e non toccare. E allora perchè deve essere proprio il mio iPad il campo ove combattere edipiche guerre postume alla tua formatrice e genitrice?
Perchè sì, sembra rispondermi con gli occhi scremati dalle cataratte da operare. Va bene, dai.
“No guardi, non è magico, è come i computer normali, però invece della tastiera si fa tutto sullo schermo, provi a passare il dito”. Un dito rinsecchito e scheggiato e calloso e rugoso tiene in ostaggio un gruppo di icone, il mio gruppo di icone, indeciso se voltare pagina o se tenerle così, nel limbo del touch. Poi le molla, spinge su una a caso, fa partire la radio.
Il vecchio si stacca dallo schermo, mi guarda contento.
“Ma dove siamo arrivati, è una cosa bellissima”.

E tu capisci, Steve, che se un vecchio dice sorridendo la frase che di solito accompagna ad uno sguardo severo, se un uomo di un altra generazione davanti alla tecnologia non si spaventa ma torna bambino, allora te ne puoi andare tranquillo. I tuoi inventeranno altri gingillini per i quali spenderemo troppi soldi e per costruire i quali verranno sfruttate troppe persone, e di questo anche tu, se qualcuno lassù c’è, renderai conto.
Ma la tua idea, il tuo sogno, la tua visione, quella ha vinto. Perchè io faccio il figo razionale a dire al signore che “no, non è magia”, ma poi non lo voglio sapere come si organizzano i polimeri e gli elettroni dentro la mia tavoletta, perchè lì dentro la magia c’è.
Perchè, per come sono fatto io, tutto ciò che rende più facile ad un uomo comunicare con i propri simili, aiuta a generare quella magia che non sta nell’oggetto in se, ma nelle cose che non potremmo dirci senza la sua esistenza.
Ecco tu, Steve, a questo tipo di magia hai dedicato la tua vita. Per quali motivi, ormai, non è più importante, ma c'era ancora bisogno di un tipo come te. Ciao mago secco, buon viaggio.

giovedì 15 settembre 2011

Us and Them

Ieri, mercoledì 14 settembre, come accade circa una volta a settimana, l’Apocalisse si è manifestata su questa terra. Non ve ne siete accorti, lo so. Perchè in realtà si è manifestata sotto questa terra, e per la precisione su una banchina. Io, personalmene, l’ho incontrata presso la stazione metro di Barberini e, nonostante la pausa estiva, devo dire di averla trovata piuttosto in forma. Apo è fatta così, per un po’ sparisce, ti preoccupi, la chiami e ce l’ha staccato, ma poi torna sempre, con tutto il suo corollario di tragedia e disperazione.

Ieri, mercoledì 14 settembre, alle 18 circa, il tempo si è fermato, e l’uomo ha sconfitto il tabù della violazione dello spazio-tempo senza neanche avere bisogno di una DeLorean. E’ bastato che per un quarto d’ora non passassero convogli, in quei quindici minuti di sospensione della realtà, Apo si è palesata tra di noi, con l’intenzione di trattenersi per un po’, una visita di cortesia, niente di più, quell’oretta necessaria a generare scene più consone al Terzo Reich che alla metro di Roma.

In queste situazioni il mondo all’esterno non esiste più, e si è catapultati all’istante in un nuovo ordine di cose, una comunità nella quale le più basiche regole che sottendono ad una civile convivenza vengono schiacciate senza pietà dalla ferocia e dalla voglia di tornare a casa.
All’improvviso il macrosistema si divide in due: noi e loro. “Noi” sono dentro il vagone, schiacciati come sardine, cruentemente determinati a resistere ad ogni tentativo di ulteriore ingresso. “Loro” sono fuori, ugualmente schiacciati, voracemente affamati di una qualche forma di vuoto nel vagone da andare a colmare tramite adesione totale del proprio corpo con quello di uno sconosciuto. Non di rado si sfocia nella pornografia involontaria.

Ciò che preme sottolineare è l’assoluta volatilità delle composizione delle due tribù. Quando sei un “Loro” e spingi per entrare, i “Noi” si coalizzano con commovente coesione sociale contro di te, ricoprendoti di una vastissima gamma di epiteti che hanno come basa d’asta un cordiale: “A pezzo de merda”. Tu, insensibile ad ogni suono e ai colpi sotto la cintura, acquisito istantaneamente per meriti sul campo il passaporto giapponese, spingi con tutta la forza che hai in corpo e incredibilmente, là dove la materia appariva insondabile, riesci a creare la breccia che ti permette di entrare all’istante nell’insieme “Noi”.

Il cambio di scenario è pressochè istantaneo. Gli uomini e le donne con i quali sino a pochi istanti prima condividevi un’epica battaglia divengono seduta stante dei rozzi individui deformati dalla fatica e dall’odio, orrende creature degne della penna di Tolkien da respingere in ogni modo, fortificando le barriere con borse, ombrelli ed ogni tipo di suppellettile disponibile.

Allo stesso modo, chi ti offendeva ora ti spalleggia, ti esorta alla conservazione di un precario status quo e tu, vile, orrendo giuda e traditore, ti prodighi in un “Ah signò ma non lo vede che non c’è spazio, ma ndo devo andà secondo lei? EH? CHE FACCIO? SPARISCO?” al quale seguono grida di giubilo e onoreficenze varie.

Appena chiuse le porte l'effimera solidarietà evapora in un colpo d'aria condizionata, e inizia la lotta silente per il riposizionamento in vista della prossima battaglia. Chi deve scendere si fa largo tra membra umane indistinguibili tra loro, chi ha appena combattuto tenta di guadagnare le retrovie per conquistare il posto nell'ideale infermeria rappresentata dalla porta situata sul lato opposto del vagone. E qui vogliamo ricordare con un minuto di silenzio i caduti nel baratro dell'ignoranza e dell'inesperienza, che facendosi gloriosamente largo tra esseri umani esausti si sono spinti sino all'ambito porto sicuro, senza sapere che quella era la fermata nella quale cambia il lato di apertura porte.
A voi, ignari eroi di questa lotta quotidiana, tutta la nostra compassione, tutta la nostra solidarietà. Ma solo dopo avervi fregato il posto che occupavate.


P.s. Se ti piace il blog, non vedo perchè non dovrebbe piacerti il gruppo Facebook. Ci trovi un po' di cose che qui non ci sono, vieni a dare un'occhiata: http://www.facebook.com/b.i.t.generation


martedì 6 settembre 2011

La fissa

L’uomo col completo sta leggendo “Il Giornale”.
L’uomo in maglietta sta leggendo “La Repubblica”.
Seduti uno davanti all’altro in un vagone vuoto, eccetto chi racconta. Entrambi notano immediatamente la pubbblicazione che l’altro sta sfogliando, e ne traggono le proprie deduzioni.
Di tanto in tanto, uno sguardo si arrampica oltre il bordo della pagina per andare a sbattere contro il nemico, e controlla se l’altro non stia facendo la stessa cosa. Per due o tre volte lo fanno in momenti diversi, e le saette non si scontrano.

Ora, nove volte su dieci queste situazioni si risolvono in un nulla di fatto, e al massimo i due scendono dalla metro dedicandosi reciprocamente un : “Ma come fa a leggere quella merda?”, ma senza dirlo, pensandolo e basta. Stavolta, sarà il momento un tantino delicato a livello politico, sarà che hanno litigato a casa con la moglie, sarà che il cane ha abbaiato tutta la notte, i due non sembrano intenzionati a passarci sopra.


Si respira l’aria che precede il temporale, quella che ti fa correre sul balcone per ritirare i panni e ti fa tirare giù le serrande perchè dopo sei mesi ti sei ricordato di comprare il Vetril e hai pulito le finestre.

Alla fine, smentendo il mio pronostico, rompe gli indugi l’uomo col completo. “Volevo vedè a voi!” In teoria parla con qualche leader della sinistra menzionato sulle pagine del suo giornale, la pratica è talmente ovvia che il vero destinatario non si fa pregare.
“Ma voi chi, a fa’ che?”
“Volevo vedè a voi che facevate, se stavate al governo”
“Se noi stavamo al governo non ce se arrivava a sto punto, perchè quello che state a fa’ in ritardo e male noi lo stavamo a fa’ 5 anni fa e bene”
“Ah e che avreste fatto sentiamo”
“Avremmo fatto pagà le tasse a te all’amici tuoi”
“E che non lo sapevo, c’avete la fissa delle tasse voi! Basta che fate pagà la gente, nsapete fa altro”
“Ma come la fissa! Ma che vuol dire la fissa? Se non le paghi te io ne devo pagà il doppio, la capite sta cosa?”
“Eehh, vabbè....”

Hanno continuato, senza degenerare, a volte anche stemperando con ironia, per una decina di fermate. E mentre io leggevo il mio di giornale, pensavo che tutte quelle soluzioni alla crisi che si rincorrevano sulle pagine e tutti quegli emendamenti alla manovra, non sarebbero serviti a niente, e se sapessi descrivere la faccia e il tono di quel “Eehh, vabbè...” saprei anche spiegare con le parole giuste il perchè, e saprei dare un nome al tumore che ha reso questo Paese un malato terminale.

lunedì 29 agosto 2011

L'abbraccio

Un ingorgo incomprensibile, anche per gli standard di Morena. Mi ci sono trovato poco fa, imbottigliato in un 551 a sua volta imbottigliato. Mezzora per fare un chilometro. Ovviamente sull'autobus si accende subito la disputa su cause, responsabilitá, possibili soluzioni, e quando arriviamo all'incrocio principale, tutte le opinioni convergono istantaneamente, unanimemente, sulla soluzione che si palesa attraverso i vetri sporchi: "ahhhh, ce stanno i vigili". Archiviata la causa dell'ingorgo grazie al pregiudizio (quasi sempre giustificato quando si parla si vigili e traffico, non stavolta) si passa al quesito successivo: perché questo dispiegamento di forze in una anonima mattinata di fine agosto? Liberatosi parzialmente dall'ingorgo, il bus inizia a camminare, e ci offre una prospettiva su una via Anagnina teatro di una via crucis di uomini, donne, ragazzi e ragazze vestiti bene. Un fiume di persone i cui argini sono file di macchine parcheggiate senza pudore in doppie e triple file, i vigili vedono tutto ma non hanno blocchetti in mano, non invitano a spostare, non fanno multe, tentano solo di governare l'imbuto che si è creato per l'inevitabile restrizione della carreggiata.
Sul 551 un uomo dalla stazza imponente ma piegata da un caldo che lui sembra accusare più degli altri sta per prorompere in una tirata contro i vigili, anzi contro il corpo di Polizia di Roma Capitale, come recitano le fiancate delle Punto bianche. "Ma te pare possibile che questi stanno qua e..."
Si ferma. Capisce, capiamo tutti contemporaneamente mentre l'autobus passa davanti all'ingresso di una chiesa, il cui viale è gremito di persone delle quali adesso senti le voci, vedi le facce, e quelli che senti sono lamenti, e quelle che vedi sono lacrime. Capiamo che tutte queste persone sono qui per un abbraccio. L'ultimo.
Il silenzio surreale dura una decina di secondi, l'autista lo rompe con una domanda che, anche se siamo lontani dalla palina gialla, in quel momento sembra l'unica possibile: "Qualcuno vuole scendere?"
L'autobus si svuota per due terzi, scendo anche io. A fare cosa non si sa, visto che non potrò fermarmi al funerale, che il lavoro mi attende. Come me molti altri non possono fermarsi per più di qualche minuto, ma sentono il bisogno di esserci, di stringersi attorno a un dolore incomprensibile.
Il tempo che trascorre tra il 551 che mi ha lasciato e quello che mi raccoglierà lo passo ad osservare e a pensare. Non arrivo a nessuna conclusione, e non ho nessuna perla sociologica sul dolore da scrivere. Penso solo che qui, a differenza di altri funerali di ragazzi giovani come Edoardo, non vedo rabbia. Sembra esserci tanta paura, come se su quell'asfalto davanti alla pizzeria fosse rimasto un pezzo delle certezze di un quartiere che si credeva fuori dal raggio di un male così grande.

mercoledì 24 agosto 2011

L'appello

Se negli ultimi tre o quattro anni non avete preso i mezzi pubblici, bè avete fatto bene, e vi odio e vi invidio, ma sappiate che vi siete persi una grande novità: su autobus e metropolitana è sbarcata la televisione. Generalmente la programmazione è riassumibile nella coraggiosa linea editoriale: “Bambini che cadono e gattini che sbattono”, residuati bellici di una ironia commerciale anni ‘90 che a malapena troverebbero spazio in Paperissima Sprint. Ma negli ultimi giorni su queste televisioni è in heavy rotation un filmato di tutt’altro tenore, un appello promosso dal quotidiano Milano Finanza, e dice questo:

Se l'Italia ha bisogno, noi ci siamo. Siamo imprenditori, professionisti, manager, comuni cittadini. No, non ci stiamo a che l'Italia sia ridotta sul lastrico. Siamo un paese forte, ricco, con un debito pubblico altissimo, ma con un debito consolidato pubblico-privati nettamente più basso della Gran Bretagna, più basso della Germania, pari a quello della Francia. Le nostre industrie, le nostre banche, sono solide. La ricchezza liquida del paese è più di 10 volte (oltre 3.000 miliardi di euro) l'ammontare dei titoli che ogni anno lo Stato italiano deve emette per rinnovare quelli in scadenza. Il 50 per cento del debito pubblico è in mano a noi italiani. Se all'Italia serve, se dovesse servire il nostro aiuto per le emissioni, noi ci siamo.

Ne emerge il quadro di un Paese in splendida salute, che solo per una malaugurata serie di circostanze sfortunate si trova invischiato in una crisetta passegera, niente a che vedere comunque con situazioni disastrose quali quelle britanniche, tedesche o francesi, veri fanalini di coda dell’economia continentale. Eppure qualcuno, i soliti burocrati, la solita Europa soffocante nemica della produttività, sembra non voler tener conto della ricchezza liquida e delle banche solide, mancherebbe solo lo stato gassoso, ma anche su questo c’è una risposta: se dovesse servire aiuto per le emissioni, loro ci sono.
Sì ma chi sono loro? Ci sono Montezemolo, Della Valle, Tronchetti Provera, Scaroni, e molti altri nomi meno conosciuti al grande pubblico ma soprattutto, come rivendicato da un comunicato ad hoc, ci sono Elkann e Marchionne. Sì, lo stesso Marchionne che meno di un anno fa diceva: “Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia”.

E’ un appello che suscita più di una perplessità. Volendo soprassedere sul tono, che fa tornare alla memoria altre chiamate alla solidarieta nazionale, si rimane interdetti scorrendo i nomi dei firmatari della lettera, soggetti che sembrano essersi accorti leggermente in ritardo di una serie di cose che non vanno, e che ne parlano come se fino a ieri fossero vissuti altrove, e se non fossero essi stessi parte della classe dirigente di questo Paese. Sì, l’Italia ha bisogno, ma ha bisogno di voi da un pezzo.

Aveva bisogno della vostra trasparenza e delle vostre tasse quando creavate holding all’estero per controllare attività commerciali italiane. Aveva bisogno del vostro senso di comunità quando avete finanziato la crescita di alcune aziende con gli aiuti di Stato, per poi divedervi gli utili e accollare le perdite alla collettività. Aveva bisogno dei posti di lavoro che avete tagliato in Italia e non perchè le vostre aziende erano in perdita, ma perchè non producevano i profitti che vi eravate preposti. Aveva bisogno di politiche che incoraggiassero il lavoro giovanile mentre approfittavate di una regolamentazione di stage e tirocini che vi ha permesso di avere milioni di ore lavorative a costi irrisori. Aveva bisogno delle vostre risposte e delle vostre proposte quando la politica negava che ci fosse una crisi in arrivo e voi avete applaudito nelle assemblee di Confindustria.


Qui non c’è bisogno di fare cronaca giudiziaria e di cercare processi e condanne, anche solo prendendo in considerazione le condotte che non infrangono alcuna legge, chi propone questo tipo di richiami etici dovrebbe farsi qualche scrupolo. E poi, ci faranno sapere quanto debito compreranno? Veranno pubblicate delle tabelle nelle quali saranno indicati gli importi investiti (perchè si tratterebbe comunque di investimenti, non di donazioni) da ciascun firmatario? Aspettiamo fiduciosi, ma neanche troppo.

Ma forse sono io che mi crogiuolo in un anacronistico pregiudizio, forse le cose stanno cambiando davvero, forse chi si fa estensore di un appello così nobile ha già deciso di perseguire la propria legittima ambizione contando sulle proprie forze, e generare ricchezza senza gravami per le casse dello Stato. Colto da sensi di colpa, ho voluto verificare.

L’appello è promosso da Milano Finanza, quotidiano finanziario che fa riferimento alla Class Editori, casa editrice che pubblica anche un altro quotidiano, anch’esso prevalentemente dedicato all’informazione economica: Italia Oggi, giornale certamente non per un pubblico di massa, ma che ha comunque accesso ad un contributo pubblico per l’editoria pari a 5.263.728,72 di euro annui. Una somma tutt’altro che indifferente, perchè è vero che “Se l’Italia ha bisogno, noi ci siamo”, ma è vero anche l’esatto contrario. E’ interessante anche notare come Italia Oggi percepisca questa somma rientrando nei quotidiani e periodici editi da cooperative di giornalisti o da società la cui maggioranza del capitale sociale sia detenuta da cooperative (...)” La cooperativa che fruisce del finanziamento è la “Italia Oggi Ed. Erinne Srl”, e suscita qualche perplessità lo status di cooperativa per un soggetto economico che fa riferimento ad una società quotata in borsa, quella Class editori a proposito della quale è interessante notare la composizione dell’azionariato. Il 48,3 % è infatti detenuto da Euroclass Multimedia Holding SA con sede in Lussemburgo, e dove la sigla SA sta per Sociètè anonyme. Senza avventurarsi in analisi troppo approfondite può bastare sottolineare che queste holding non sono soggette ad alcuna imposta ne’ sul reddito ne’ sul patrimonio e che sia i profitti destinati a riserva che quelli distribuiti sotto forma di dividendi, non vengono tassati. Di nuovo, parliamo di pratiche lecite, regolamentate da trattati internazionali, ma alla luce delle informazioni sul regime fiscale lussemburghese, ognuno può dedurre cosa spinga un imprenditore ad inviare il cuore delle proprie aziende oltreconfine.

Allora amici “imprenditori, professionisti e manager” se le cose stanno così, se avete trovato il modo di infilarvi tra le maglie di una legislazione permissiva, se avete avuto la fortuna di poter usare le casse dello Stato come un bancomat, se avete delocalizzato fino ad avere di italiano solo il profitto, ma anche solo se non avete fatto nulla di tutto ciò e avete taciuto per anni sul modo in cui si reggeva lo status quo che vi ha permesso di proliferare, fateci un favore, continuate a tacere, preferiamo i bambini che cadono e i gattini che sbattono.

martedì 16 agosto 2011

La lotteria

È che noi siamo fissati con 'sta storia di voler vedere i posti, fare le foto, acquistare souvenir, portare i pensierini. Perchè se non fosse così, se non fossimo piegati alla dittatura della geografia, io oggi potrei affermare senza tema di smentita di essere stato in Alaska, e di esserci andato con il 64. Ok sarebbe una piccola bugia, non ci sarei andato "col" 64, ma "nel" 64, e non inteso come 19 anni prima della mia nascita, ma proprio come la linea del bus. Perché chiamare questa aria condizionata sarebbe come dire che la Lazio non ha avuto un buon trend negli ultimi derby. Quantomeno riduttivo.

Appena salito mi ero pure sentito furbo, bruciando sullo scatto un goffo tedesco (prima o poi avresti dovuto pagare il prezzo di deambulare con i calzini sotto le infradito, mein freund) mi ero assicurato l'ambito posto lato finestrino, ma presto la verità si è palesata in tutta la sua glaciale chiarezza. Avevo fatto una cazzata. I bocchettoni che dall'alto sparano aria condizionata non avevano in mente di farci arrivare integri (e non liquefatti) fino alla metro, ma sembravano avere un obiettivo più ambizioso. A occhio e croce il 2070. Giá immagino il ritrovamento di questo bus d'epoca con all'interno, perfettamente ibernati, dei veri cittadini del 2011 consegnati all'eternità nell'ultimo disperato tentativo di scaldarsi in un abbraccio generale. Neopompeiani divenuti statue non a causa della lava ma del gelo. "Guarda come si volevano bene" diranno i visitatori.

Non immagineranno, gli amici del futuro, la lotteria alla quale Atac ci fa generosamente partecipare con il solo acquisto del titolo di viaggio, senza esborsi aggiuntivi. Si chiama "muori o crepa", e ogni giorno coinvolge una intera città in un elettrizzante scommessa: l'aria condizionata sarà guasta o assassina? I pendolari vedono arrivare l'auto e iniziano a sgomitare, tutti con un bel sorriso stampato in faccia e sempre con grande eleganza, ed è lì che un allibratore ufficiale, dipendente dell'agenzia per la mobilità, diffonde rapidamente le quote e accetta le scommesse. "5 a 1 per il muori di freddo, la metà per il crepa di caldo", ognuno punta e poi via, tutti in vettura a scoprire chi ha vinto, tra grandi risate e ottimismo diffuso, perchè se non ce l'hai fatta stavolta, ti toccherà la prossima. Certo, c'è qualche minimo effetto collaterale, dal raffreddore alla broncopolmonite, dalla disidratazione alle allucinazioni, sino a rari casi di delirium tremens o logorrea da Facebook, anche se l'incidenza di quest'ultima sembra limitata ai soli rocker di Zocca. Ma possono queste trascurabili patologie incidere sul piacere di trascorrere un'estate in città all'insegna del divertimento e della partecipazione? No, non possono. Allora godiamoci questo esilarante agosto in città, e dimmostriamo gratitudine verso chi fa di tutto per non farci annoiare mai.

mercoledì 3 agosto 2011

Il gioco delle tre carte

“What’s wrong with this country?”
Tom me lo chiede con gli occhi sgranati, con Miss Little America che piange aggrappata ai suoi pantaloni, e una Lonely Planet in mano. Ma soprattutto me lo chiede in una piazza dei Cinquecento illuminata da un sole che crepa l’asfalto e tratteggia sui volti dei passegeri la mimica rilassata di Jack Nicholson in Shining. Li avevamo immaginati, li avevamo temuti, quei giorni sono arrivati: quando l’Agnello sciolse il sigillo le metro si fermarono, e fu l’Apocalisse di Termini. Da tre giorni la tratta Anagnina-Termini è chiusa per lavori, e viene coperta con una linea di bus sostitutivi, la Ma3. Ciò che più colpisce è la carenza di segnalazioni: i romani, forgiati nell'acciaio delle madonne da anni di disservizi, più o meno se la cavano. I turisti, del tutto disorientati, sembrano come pentiti di non aver accettato l'altra proposta mediterranea del tour operator: la Libia.

Tom è americano, è qui in vacanza con la famiglia e non si capacita, così mi chiede cosa deve fare, e quando mi racconta il suo viaggio iniziato dalla Metro B e passato attraverso l'imbuto infernale di Termini, sbotta nella domanda di cui sopra. Io, che ho in mano il giornale aperto sulla pagina in cui si racconta di un Obama messo alle corde da quei progressisti del Tea Party, provo a buttarla vergognosamente in caciara, allungo il Corriere della Sera e controbatto: “What’s wrong with YOUR country!”. Lui la prende bene e mi risponde con il calore umano di una fabbrica abbandonata di Vladivostok: “A lot of Americans doesn’t deserve our president, but a lot of Italians doesn’t deserve Italy’s beauties”. Ne segue una breve e cortese contesa verbale che mi vede ribattere colpo su colpo, e dalla quale esco con una sensazione di affermazione personale assimilabile a quella di Napoleone a Waterloo. Perchè Tom ha ragione: molti di noi non meritano la bellezza di Roma, ma rimango con il dubbio di non essere riuscito a fargli capire che altrettanti tentano di preservarla, e che chi non la merita è innanzitutto chi deve amministrarla.

In questo particolare caso, il numero di bus messo a disposizione della linea sostitutiva, per quanto messo a dura prova in alcuni momenti della giornata, sembra essere adeguato. Da 72 ore si vedono correre liberi branchi di Ma3 su e giù per Appia e Tuscolana, in file da tre o quattro bus. La reazione comune è quella di una certa sorpresa, e una larga parte dell’assemblea cittadina converge spontaneamente sulla mozione Vecchietta Colli Albani: “Ma allora ce l’avete l’auto, m******i vostra”. Ma se si prova a prendere una linea consueta si scopre che la verità è che non ce li hanno, e che li stanno semplicemente spostando. I tempi di attesa per gli autobus sono magicamente aumentati contemporaneamente all’istituzione della linea sostitutiva, e così in alcuni momenti della giornata si vedono passare tre vetture della Ma3 semivuote mentre le banchine sono piene di disperati che aspettano un 558, un 87 o un 63. Evidentemente il concetto di razionalizzazione delle risorse non alberga presso l’Atac, che presto diramerà trionfali comunicati stampa sul numero di vetture utilizzate per la Ma3 grazie ad un innovativo piano per la mobilità. Ma di innovativo non c’è niente, questa cosa si fa da secoli, e si chiama gioco delle tre carte.

mercoledì 27 luglio 2011

Un'altra ora

Certe signore non lo fanno apposta. Squadrare le persone, è il loro modo di relazionarsi col mondo. Ci sono pure le signore stronze, per carità, ma l’insieme di quelle che lo sembrano non coincide con quelle che lo sono. Chiaramente questo lo capisci dopo un po’. All’inizio senti solo lo sguardo-risonanza magnetica che in pochi secondi effettua un completo check-up della tua esistenza: pulizia delle scarpe, livello di stiratura della camicia, lunghezza della barba, postura nella seduta, sono tutti criteri che concorrono alla classificazione della tua persona.

La valutazione, spesso, non è decretata da un singolo giudice, ma da una rodato network di sguardi che si attraversano da parte a parte dell’autobus. Le signore sugli autobus hanno scoperto il peer to peer molto prima di Napster. Non c’è bisogno che le mamme o nonne in vettura si conoscano, se indossi qualcosa di vagamente bizzarro basta un’occhiata fugace per attivare il processo irreversibile per il quale in 6 secondi netti hai uno sciame d’occhi che ti fa le pulci, e che in tempo reale mette in condivisione i risultati dello screening. In genere finisce lì, stavolta invece una si avvicina.

Io, che la mattina sono socievole come il mostro di Dusseldorf, tento di mimetizzarmi, conficco gli auricolari sino a lambire il cervelletto e mi affresco contro il finestrino nella più innaturale delle posture, ma avverto la sua presenza. Lei non si stancherà, lei vuole parlare. Provo la tecnica Jurassik Park, cerco di rimanere immobile, magari non mi vede, ma poi, quando gli sguardi si incrociano devo capitolare. Con una mimica più prossima all’emiparesi facciale che al sorriso di circostanza, e con un sottotesto cordiale e marcato che non lascia dubbi sul fatto che il vero messaggio sia “Che cazzo vuoi?”, metto in pausa i White Stripes, mi sfilo le cuffie e azzardo un “Mi dica signora”. “Niente, io sto a scende, ma sto biglietto è ancora bono pe un’altra ora, ce puoi prende la metro, o voi?”, e suggella la proposta scabrosa con un sorriso complice. Io ho l’abbonamento, non mi servirebbe, ma ovviamente accetto e ringrazio. La signora, soddisfatta, chiosa proletaria “Se nse damo na mano tra noi...”, e mentre cerco di elaborare una risposta adeguata la vedo sparire dalla porta centrale con il suo carrello della spesa, lasciandomi lì a sentirmi un cretino che fino a un minuto prima era così impegnato a classificare i pregiudizi degli altri da non accorgersi del fatto che stava attingendo a tutti i suoi.

Non mi ero sbagliato in toto, la signora mi aveva giudicato, e aveva dedotto che quel tipo di persona, tra le altre cose, era uno che non aveva il biglietto. Eppure la reazione naturale non era stata di condanna, ma di una solidarietà piccola, minuscola, una solidarietà da un euro e da sessanta minuti, ma che non sarebbe venuta in mente alla maggior parte di chi un giorno è solidale con i cassintegrati della Sardegna e quello dopo con i minatori del Chiapas, ma poi spegne il computer, scende in strada, si mette gli auricolari e, in caso, alza il volume.

giovedì 14 luglio 2011

Agosto metro mia non ti conosco

Prima di iniziare, amico lettore, ti chiedo di utilizzare dieci secondi del tuo tempo, non è niente di pericoloso, tranquillo. Lo so che Tranquillo a Roma ha visto compiersi il suo destino secondo modalità orribili, ma fidati di me. Potrei essere chiunque, dietro il blogger potrebbe celarsi uno stalker, un serial killer, un fan di Gigi D’Alessio, ma tu fidati, fai come ti dico. Apri Google Maps. Digita China come punto di partenza. Digita Taiwan come punto di destinazione. Clicca su 'ottieni indicazioni stradali'. Leggi il punto 48.

Ora, io non ne posso avere la certezza, ma dentro di me sono convinto del fatto che questo percorso sia stato ideato da qualche responsabile dellamobilità romana. Perchè questa è esattamente la concezione di rispetto per il viaggiatore che alberga nelle teste di chi decide il destino degli utenti del trasporto pubblico della Capitale. Solo chi è dotato di questa creatività può concepire quello che si abbatterà sulla città ad agosto. La chiusura della tratta Anagnina-Termini in un primo momento, e Arco di Travertino-Termini per il resto del mese. La città spezzata in due, con tutto quello che comporta per lavoratori e turisti, una cattiveria al confronto della quale un concerto di Gigi D’Alessio appare come una prospettiva gradevole.

Ricordate la campagna antibullismo di un anno fa? Il testimonial era proprio lui, Gigi, il Comune di Roma lo aveva scelto per sensibilizzare i minori su un tema delicatissimo. Come a dire: se non fai il bullo diventi come lui. Fossi stato il più fesso dei bimbi avrei subito ordinato una dozzina di mine anticarro. Ma non è questo il punto, come disse l’arbitro al tennista che chiedeva il match point sul 15-0 al primo game. Il punto è che lo stesso Comune che un anno fa chiedeva ai suoi giovani cittadini di non essere prepotente, oggi fa un atto di bullismo istituzionale. Chiudere la metro per un mese, sebbene con delle parziali riaperture su alcune tratte, NON è una soluzione. E’ inutile istituire la task force anti caldo per gli anziani se poi li obblighi a salire e scendere da metro e autobus 4 volte per arrivare da Anagnina a Barberini. E’ inutile chiedere rispetto per la città se poi chi ne regola la vita negli aspetti cruciali ne ha a intermittenza. Ma cerchiamo di capire meglio, sviscerando e andando al vero senso delle parole che compongono il comunicato con il quale Roma Metropolitane ci comunica la decisione.

I lavori della nuova Linea C in corso a San Giovanni rendono necessario attuare la chiusura temporanea della stazione della Linea A e la sospensione del transito ferroviario, con ripercussioni sul servizio dell’intera Linea A.
C’hai presente er casino in zona San Giovanni da n’anno a sta parte? Nun era l’antipasto, erano i crackerini prima dell’aperitivo. Mò se magna davero. Tu capisci che dovemo apparecchià bene e che a tavola è lunga.

La chiusura della stazione riguarda il periodo compreso tra il 30 luglio e il 29 agosto con ripresa dell’esercizio il 30 agosto, quindi con il minimo impatto possibile sulla mobilità.
Famo che a Agosto annate tutti a Fregene, vedrai che a Roma non ce saranno impatti sulla mobilità.

È stato predisposto da Roma Servizi per la Mobilità, Atac e le UITS del I e IX Gruppo di Polizia Municipale un piano di bus sostitutivi corredato degli interventi agli itinerari e alle fermate in grado di garantire fluidità e sicurezza dell’esercizio.
I signorini comodini che sò troppo stanchi pe fasse un po’ de mare li scarrozzamo lo stesso, che semo gente bona de core. Amo recuperato un par de Fiorino e na Renault 4. Alle fermate troveranno dei cartelli informativi co scritto: io te l’avevo detto de annà a Fregene.

Resta invariata, fino ad aprile 2012, la chiusura serale alle 21.00 dell’intera Linea A dalla domenica al venerdì, con servizio bus sostitutivo.
Tu capisci che la sera un po’ de fresco se lo volemo pià pure noi, se beccamo a Fregene pe un dopo cena eventualmente, già mangiati.

Grazie alle soluzioni tecniche adottate è stato possibile contenere l’interruzione a 30 giorni rispetto alle previsioni iniziali di 45 giorni.
E’ come ai saldi, basta che prima arzi er prezzo e dopo sò tutti contenti e coionati.

Deve essere alla luce di tutto questo, sulla base dell’ennesimo successo, che oggi qualcuno, forte di anni di efficienza e puntualità, deve aver deciso di aumentare dall’anno prossimo il prezzo di biglietti e abbonamenti. Così, senza vergogna.

lunedì 11 luglio 2011

Furio Camillo - Il bimbo con l'Iphone

Il viaggiatore urbano lo sa: la rapidità d’esecuzione è fondamentale. Quando sei sulla banchina, con le porte ancora chiuse ma con i vagoni già fermi, hai quei 2-3 secondi in cui il tempo si sospende e inizia lo screening della situazione interna, necessario al fine di stabilire in un lasso di tempo infinitesimale l’indice C.D.V. (Composizione Demografica del Vagone). Il C.D.V. è uno strumento potente che si affina nel tempo, levigato da viaggi di martirio tattile e olfattivo, uditivo e morale. Il C.D.V. ci permette di valutare in pochi attimi quali saranno i nostri compagni di viaggio tra una fermata e l’altra, e di capire se quel posto a sedere vuoto è un colpo di fortuna o una trappola da evitare. In alcuni casi è semplice: se l’unico posto libero su quattro è quello che segue quelli occupati da Red Canzian, Dodi Battaglia e Roby Facchinetti, uno lo capisce subito che non deve sedersi. Come regola generale, evitate agglomerati umani che intitolano la propria impresa commerciale al nome di un orsetto. Come regola particolare, evitate Red Canzian: quanti tra i vostri amici hanno sia il nome sia il cognome che iniziano e finiscono con una consonante? Pensateci. NESSUNO. Lo so, mette i brividi.

Quando il seggiolino libero è in prossimità di un bambino, la valutazione da effettuare è meno immediata: bisogna capire se farà domande per tutto il tragitto o no. In questo caso mi sembra di no, sta giocando con qualcosa, è innocuo, mi avvicino, mi accomodo. Dopo pochi secondi mi rendo conto che il mio C.D.V. è ancora fallibile. Mi guarda, il marmocchio. Di più, mi sfida. E' divertito, ma non vuole solo stare bene: vuole che io stia male. Che lo invidi. Con la coda dell'occhio mi invita ad ammirare di quanta completezza consti la sua esperienza ludica di otto-novenne. Sta giocando con l'iphone, nello specifico con un’app nella quale bisogna tirare delle punizioni, fare gol; ad ogni segnatura cresce la difficoltà, fino a quando la barriera è più affollata della rubrica di Bisignani.

A un certo punto una scritta irrompe sul campo "NEW HIGHSCORE: 87!". Ha battuto il suo record personale. Ora mi guarda negli occhi direttamente e, pleonastico, sentenzia: "E' un iphone, è un gioco fatto apposta per l'iphone". Come a dire: tu non ce l'hai, non ce lo puoi avere, perchè il cellulare che hai in mano è vecchio, come sei vecchio tu, e tutto quello che rappresenti. Per quanto ne sa lui potrei essere il nuovo batterista dei Pooh. Gli sorrido, ne apprezzo la socialità, la simpatia di tenero birichino, e perchè no, anche quella vitale voglia di stupire il prossimo.

Ed è esclusivamente in un'ottica pedagogica, e non per una voglia di rivalsa che sarebbe a dir poco infantile, che con nonchalance tiro fuori dalla borsa il mio Ipad, avvio lo stesso gioco, ma visualizzato più bello e più grande, e gli rispondo: "Ah, pensa, sembra uguale a questo" ed è solo inavvertitamente che con un tocco sbilenco della mano apro la pagina del record dove campeggia un epico 155. Lui incassa con grande dignità, e sebbene il sorriso spensierato dell'infanzia sia sfiorito in una prematura ansia da prestazione, riesce ad aggiungere: "Mò ci gioco finchè non faccio 156". Ed è così che un infante di Furio Camillo ha imparato due sostanziali verità in un colpo solo: che le dimensioni contano, ma che per battere certi record è solo questione d'allenamento.

mercoledì 6 luglio 2011

Lo stadio sul treno

Talvolta il viaggiatore urbano prende coraggio, spicca il volo, e si libra oltre le nuvole del trasporto locale per ascendere ai cieli della ferrovia ad alta velocitá. La comoditá è indubbia: da Roma a Milano in tre ore. Pensate alla magia, nello stesso intervallo di tempo un turista giapponese è stato portato a Ostia Antica da un tassista, e dopo due giri del raccordo ora sta scattando foto a quelle che crede siano le rovine di Pompei. (Nota per eventuali tassisti lettori del blog: si scherza, rispetto molto il vostro lavoro e le vostre premure per il cliente. Ma ora potete togliermi la canna della pistola dalla bocca, grazie.)

Ma, come disse Michael Jackson al bambino che voleva giocare a baseball, non divaghiamo, siamo qui per altro. Parlavamo di tav. Del treno veloce che mi sta portando a Milano, sul quale da circa un quarto d’ora si è accesa una discussione riguardo altri treni veloci, quelli della linea Torino-Lione. La contesa è tra una giovane madre, sulla trentina, e una donna che grossomodo potrebbe essere la madre, ma non lo è. In aggiunta un uomo sulla quarantina funge da spettatore attento al ping pong di opinioni, non stacca mai gli occhi dalla pallina, ma soprattutto dalla neo-mamma. E' evidente come del suo status di giovane madre sia interessato prevalentemente alla possibilità di poterla rendere nuovamente giovane madre.

La donna più anziana è granitica nella sua convinzione che la Tav sia necessaria, che costituisca un'occasione imperdibile di sviluppo e che chi la contesta sia mosso esclusivamente da motivazioni ideologiche. La giovane madre, da par suo, rimprovera alla signora una cieca condotta filogovernativa e l'incapacità di documentarsi presso fonti slegate da interessi di lobby. Presto la discussione degenera, non tanto nei toni che si mantengono entro i confini di un confronto acceso ma leale, ma nei contenuti. Dopo neanche tre minuti non si sta più parlando di binari e montagne da bucare, ma di un frullato di legittimo impedimento, immigrati, toghe rosse, questione morale e contributi pubblici ai quotidiani. Non si sta più parlando di niente, si sta facendo il tifo. La madre potrebbe attaccare parlando dell'amianto nelle montagne, della dubbia utilità della tratta e della sua destinazione d'uso, dell'impatto sull'ecosistema, così come la donna potrebbe rispondere con i contributi dell'Unione Europea da cogliere al volo o con la necessità di adeguare le infrastrutture agli standard europei. Nulla di tutto questo. Al tifo interessa solo gridare più dell’altra curva.

A un certo punto irrompe la figura che ognuno di noi possiede nella cerchia delle proprie conoscenze: quello che non tifa nessuno ma ogni tanto guarda una partita. Gli invidiamo la capacità di godere del bel gioco e di cambiare canale quando le squadre traccheggiano a metà campo, ma lo detestiamo per il suo interesse superficiale: non sarà mai disperato come noi per un rigore sbagliato, ma con lui non festeggeremo mai niente. Pacifico, l’uomo-spettatore esordisce: “A me fa comodo arrivare a Milano in tre ore, e magari sarà anche utile spostare merci più velocemente sulla Torino Lione. Però mi pare che qui si ragiona solo in verticale.”

Le due curve si zittiscono, la voce che è partita dalla tribuna le ha spiazzate, attendono in silenzio di capire per quale squadra si schiererà con il prossimo coro, che arriva puntuale, deludendole entrambe. “Dicono che tra due anni ci vorrà ancora meno e si arriverà a Milano in due ore e venti, bravi, però nessuno dice che ci vogliono tre ore per fare Roma-L’Aquila in treno, che sò cento chilometri. Di quanto ci si mette in orizzontale non ne parla nessuno”.

Alle orecchie delle due curve, è come se l’uomo si fosse appena prodigato in un elogio della Tessera del tifoso, unico argomento in grado di cementare in un’unica famiglia le frange più ostili. Le donne, unite nel disprezzo della posizione inclassificabile, lasciano cadere nel silenzio il goffo tentativo dell’uomo di riportare la discussione sul piano dei contenuti originali, e ripartono con la bolgia da stadio, e continuano a fare il tifo, a parlare d’altro, come succede ormai da vent’anni. Quello di cui non ci siamo accorti è che mentre noi decidevamo in quale curva sederci e quali bandiere comprare, mentre tiravamo su striscioni contro l'altra curva e ci sentivamo la tifoseria migliore, i nostri beniamini avevano cambiato tante maglie e avevano smesso di fare gol da un pezzo. Perchè la partita era finita, e avevamo perso tutti.

giovedì 30 giugno 2011

I Controllori

Se sei un chitarrista del Tuscolano e hai 29 anni, hai avuto una serie di tappe obbligate.

Sei sceso a Subaugusta. Lo hai fatto per provare nella saletta di "Batti il tuo tempo", storico centro giovanile e presidio culturale, luminoso esempio di come pochi soldi pubblici potessero bastare a rendere felici tanti adolescenti. C'erano gruppi dai nomi e dal suono brutti come il dispiacere, e tutto sommato eravamo raccapriccianti tutti noi. Noi chitarristi, nello specifico, passavamo ore a suonare assoli. Finchè qualcuno non ci faceva notare che quello era più un qualcosa che ledeva i diritti dell'uomo, e allora smettevamo.

Sei sceso a Lucio Sestio. Lo hai fatto per suonare all'Elefante Bianco, per molti musicisti della zona la prima vera sala prove, la prima volta in cui sentire veramente cosa stanno suonando tutti gli altri, e scoprire che era meglio quando era tutto un confuso, e certe offese alla musica si perdevano nel magma delle equalizzazioni sbagliate.

Sei sceso a Colli Albani. Lo hai fatto per esibirti nel tuo primo concerto in qualcosa che richiamasse vagamente la forma di un locale, in un posto di Via delle Cave che ha cambiato più nomi di un partito di Mastella, e su quel palco (30 cm s.l.m.) ti sei sentito prossimo a Dio, e non ti interessava se il "bravo" che ti dicevano in realtà era un "bravo lo stesso".

Sei sceso a San Giovanni. Lo hai fatto per assistere al tuo primo concertone, un primo maggio di tanti anni fa di metà-fine anni 90. Avevi quindici anni, più o meno i tuoi avevano detto: "Ci vai ma fatti sentire". Ma il cellulare non ce l'avevi, ancora, il che voleva dire fare la fila alla cabina mentre stava suonando l'unico gruppo di cui possedevi una vaga conoscenza.

Hai fatto tante altre fermate, poi sei cresciuto e hai preso la patente, il tuo viaggio ha preso rotte imprevedibili, sempre meno comuni ai tuoi coetanei e coCinecittadini. Hai continuato a suonare,
hai rinnegato quello che ascoltavi a 16 anni, poi ci hai fatto pace, lo hai risuonato un giorno da solo in camera e ti sei ricordato di quando trascinavi amplificatori più grandi di te sul 559. Ci hai pensato magari mentre guardavi Amici o X-Factor ed eri ancora più convinto di aver fatto bene a scendere a Subaugusta, Lucio Sestio, Colli Albani.

Hai continuato a fare rock, hai continuato il tuo itinerario, a trovare un senso in quello che per altri era solo rumore, finchè delle persone hanno deciso che di rumore ne facevi troppo, si sono imposti come Controllori (della morale, del costume, del silenzio e di chissà cosa altro) e ti hanno detto che il tuo viaggio finiva lì. Perchè loro troppe voci insieme non le capiscono, sono abituati ad ascoltarne una sola, che mentre a parole gli dice che non si deve uscire dai binari, coi fatti gli fa capire che possono fare tutte le fermate che vogliono. Ultimamente La Voce è così insistente che i Controllori pensano che sia normale poter decidere dove mettere il capolinea ai viaggi degli altri, ma forse non ci sono riusciti. Siamo tutti qui a sperare che sia solo una fermata un po' più lunga delle altre, e stasera, un minuto dopo le 23, berremo una birra alla tua salute, perchè torni presto, prestissimo.


p.s. Questo è un nuovo blog, poi faremo le presentazioni, non doveva iniziare così, ma anche se io e lui in tutte queste fermate non ci siamo mai incontrati, non si poteva che scrivere di questo.